Marco de Pavari e il dominio della piacevolezza

Anonimo italiano, Studio della testa di un cavallo, circa la metà del XVI sec.  © Metropolitan Museum of Art - New York
Anonimo italiano, Studio della testa di un cavallo, circa la metà del XVI sec.
© Metropolitan Museum of Art – New York

di Giovanni Battista Tomassini

[Questo è il testo dell’intervento che ho tenuto il 3 dicembre scorso al Resolution Day, organizzato da Francesco Vedani al Circolo Ippico Spia d’Italia a Lonato del Garda]

Questa è la storia di un cavaliere misterioso. Conosciamo solo il nome e poche altre notizie che si desumono da un libro molto raro e interessante, ma tuttora poco noto, che porta la sua firma e che venne pubblicato a Lione nel 1581. Il nostro cavaliere si chiamava Marco de Pavari ed era di origine veneziane. Si badi bene che questo non vuol necessariamente dire che fosse nato e cresciuto nella città delle gondole. Nel Cinquecento la Repubblica di Venezia aveva un vasto entroterra, che arrivava sino al fiume Adda, a non molti chilometri da Milano.

Sappiamo anche, perché il suo editore Jean de Tournes, lo scrive nella lettera dedicatoria del libro, che Marco visse in Francia e fu scudiero di François de Mandelot, che di Lione era nientemeno che il governatore. Lione all’epoca era una città ancora più importante di quanto non sia oggi. Era un centro di fiorentissimi commerci e per questo era piena di italiani. Anzi secondo lo scrittore rinascimentale Matteo Bandello, era la città fuori dall’Italia in cui c’erano più italiani. Non vi deve però meravigliare che un personaggio importante come il governatore di una città tanto ricca avesse uno scudiero italiano, perché all’epoca italiani erano la maggior parte dei cavallerizzi delle corti europee. Addirittura un italiano, Galeazzo Sanseverino, divenne Grande Scudiero di Francia durante il regno di Francesco I (1494-1547).

Stefano Della Bella, Pesade, da Diverses exercices de cavalerie, circa 1642-1645 © Metropolitan Museum of Art - New York
Stefano Della Bella, Pesade, da Diverses exercices de cavalerie, circa 1642-1645
© Metropolitan Museum of Art – New York

Il libro, intitolato Escuirie de M. de Pavari, vénitien, è un volume in folio di una sessantina di pagine, in cui il testo italiano e quello francese sono affiancati su due colonne. Corredano il testo 14 tavole a piena pagina, raffiguranti diversi modelli di imboccature. Il fatto che la lettera dedicatoria sia firmata dall’editore e non dall’autore, fa pensare che probabilmente il libro venne pubblicato quando De Pavari aveva già lasciato Lione, o era addirittura morto. L’aspetto più interessante dell’opera è che in larga parte dedicata alla riabilitazione e al riaddestramento dei cavalli che l’autore definisce “ributtati”, cioè quei cavalli divenuti ribelli, o comunque problematici, a causa dei maltrattamenti subiti. E non pensiate che fosse una cosa infrequente perché, se è vero che a quei tempi la pratica dell’equitazione era molto più diffusa e importante di oggi, il ricorso a metodi coercitivi e brutali era estremamente frequente. Tanto per fare un esempio, si consideri che il primo libro dedicato all’equitazione mai pubblicato a stampa, gli Ordini di cavalcare (1550) di Federico Grisone, si chiude con una raccapricciante rassegna di “secreti”, vale a dire di trucchi del mestiere, tanto brutali da sembrare addirittura inventati a bella posta. È facile dunque immaginare che molti cavalli sottoposti a questi maltrattamenti diventassero molto difficili. Il tratto più originale del libro di De Pavari è che lui suggerisce di recuperarli con la dolcezza, visto

che la piacevolezza guadagna assai più della disperatione: il che potrete conoscere anche voi esser vero, che la disperatione li conduce a fare tutte queste cattive volontà, e non la piacevolezza, la quale non fa questo, ma li mitiga e li tira a sé (DE PAVARI, 1581, [42] p. 31).

Il libro di de Pavari è ornato di tavole che rappresentano diversi modelli di imboccatura
Il libro di de Pavari è ornato di tavole che rappresentano diversi modelli di imboccatura

La cosa che colpisce di più è che de Pavari si preoccupa di evitare traumi al cavallo sin dall’inizio, per non guastarne la buona disposizione verso l’uomo. Quindi, per esempio, raccomanda di affiancare un cavallo già esperto che tranquillizzi il puledro nella prima fase della doma e di utilizzare esclusivamente il cavezzone nel primo periodo di addestramento, per evitare di offendergli la bocca con il morso. (A dire il vero anche il tanto vituperato Grisone raccomandava di mettere il morso in bocca al cavallo solo quando aveva già imparato a girare e ad arrestarsi). De Pavari insiste poi sull’importanza delle carezze, che – dice – servono a tranquillizzare e a premiare l’animale. Sottolinea poi – e questo ammonimento dovremmo tutti scolpircelo bene in mente – che non bisogna pretendere troppo da un animale giovane e non allenato, per non rovinarlo approfittando della sua indole generosa.

Allo stesso modo poi raccomanda di non cercare di curare un trauma con un altro trauma. Per esempio dice: quando un cavallo ha la tendenza a fuggire e a sottrarsi all’azione del morso, quasi sempre questo accade perché ha subito l’abuso di una mano inesperta e troppo pesante. In quel caso allora, invece di attaccarsi alle redini e di tirare come dannati:

bisogna dare, cioè allentare, la mano poco a poco, e, raccogliendola per il medesimo, essi perderanno quella volontà cattiva, e verrannnosi a fermare (DE PAVARI, 1581, [31] p. 27).

Anonimo, Uomo su un cavallo impennato, datazione incerta © The Trustees of the British Museum
Anonimo, Uomo su un cavallo impennato, datazione incerta
© The Trustees of the British Museum

Se poi questo non basta, spiega, invece di tirare le redini, basta mettere il cavallo su una volta stretta per arrestarne la fuga. E poi aggiunge un suggerimento piuttosto buffo. Per distogliere il cavallo che tende a scappare dai suoi propositi di fuga, il cavaliere deve montare a cavallo portando con se una fronda di salice, carica di foglie. Mentre cavalca la deve porgere al cavallo e lasciargliela mangiare, ma non tutta in una volta. La deve trattenere e cederla poco a poco, perché duri e perché il cavallo si distragga.

Lo stesso dicasi per i cavalli che rifiutano di voltare a una mano piuttosto che all’altra, oppure che indietreggiano invece di portarsi in avanti. Invece di bastonarli (come suggeriva Grisone), de Pavari prescrive di mettere loro il morso più dolce possibile e il cavezzone, di montarli senza speroni e di aver cura che la cinghia sottopancia non sia troppo serrata.

In conclusione, scrive de Pavari:

a ciò vi essorto se amate questa virtù, cioè di procedere con piacevolezza, la qual domina ogni cosa, che, se farete il contrario, non acquisterete che biasimo fra persone che saranno degne di essa e che se ne intenderanno (DE PAVARI, 1581, [60] p. 38).

Stefano della Bella, Cavaliere conduce la sua cavalcatura ad abbeverarsi in un fiume, XVII sec. © Metropolitan Museum of Art - New York
Stefano della Bella, Cavaliere conduce la sua cavalcatura ad abbeverarsi in un fiume, XVII sec.
© Metropolitan Museum of Art – New York

Vorrei aggiungere solo una considerazione finale a margine di questa storia. La difficoltà di recuperare un cavallo divenuto ribelle perché ha subito degli abusi da parte dell’uomo, evidenzia la complessità della nostra relazione con questi animali meravigliosi, che sono con noi straordinariamente compatibili, ma che allo stesso tempo sono da noi profondamente diversi. E questa diversità, che ha dei tratti addirittura enigmatici (se solo si pensa alla difficoltà che abbiamo di comprendere certi improvvisi terrori che turbano a volte questi bestioni di cinquecento chili), rende estremamente complicato comunicare con loro per renderli i nostri compagni. Tanto più che ciascuno di loro ha caratteristiche e sensibilità completamente differenti. Già nel Cinquecento un altro autore di un bellissimo libro, Claudio Corte, che pubblicò nel 1562 il suo Il cavallarizzo, sottolineava come l’arte di addestrare i cavalli sia da considerarsi più difficile di altre, perché diversamente da quanto fa l’insegnante con i suoi studenti, il cavaliere non può istruire la sua cavalcatura attraverso il linguaggio.

Solo una grande esperienza, accompagnata da un grande amore e da una continua riflessione, consentono di affinare la comunicazione fra l’uomo e l’animale. E questo spiega perché qualsiasi cavallo cambi visibilmente se è maneggiato da un cavaliere esperto, o da uno meno esperto o addirittura da un neofita. L’esperienza – dopo trentacinque anni di equitazione ne sono profondamente convinto – non si acquisisce solo attraverso una pratica assidua (che è pure fondamentale), ma deve essere arricchita dallo studio e dalla riflessione teorica.

Disegno di Stefano Marchi
Disegno di Stefano Marchi

Studiare la storia dell’equitazione non è solo un passatempo da intellettuali, ma un modo per appropriarsi del sapere di generazioni di cavalieri che ci hanno preceduto. Questo patrimonio è lì: nei libri che costituiscono la tradizione dell’arte equestre. Sta a noi riscoprirne l’inestimabile valore, per nutrirne la nostra passione e arricchire la nostra esperienza di questo meraviglioso modo di vivere che è la pratica dell’equitazione.

Bibliografia

DE PAVARI, Marco, Escuirie de M. de Pavari venitien (en ital. Et en franç.) Jean de Tournes, Lyon, avec fig, 1581 [citiamo dall’edizione moderna Escuirie de M. de Pavari venitien, a cura di P. Arquint e M. Gennero, Collegno, Roberto Chiaramonte Editore, 2008].

GRISONE, Federico, Gli ordini del cavalcare, Napoli, stampato da Giovan Paolo Suganappo, 1550.

Da sinistra: Giovanni Battista Tomassini, Francesco Vedani e Massimo Da Re al Resolution Day
Da sinistra: Giovanni Battista Tomassini, Francesco Vedani e Massimo Da Re al Resolution Day
© Massimo Mandato

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